di Claretta Caroppo (Digi.To)

L’incontro di Biennale Democrazia “Arte Pubblica nella Giungla di Calais”, che si è svolto al Cineporto di via Cagliari 42, ha raccontato due esperienze, due approcci (differenti ma vicini nelle intenzioni) di altrettanti artisti che hanno deciso di guardare con i loro occhi e scoprire con le proprie mani che cosa rappresentasse davvero la Jungle di Calais, il campo profughi francese dove migliaia di migranti hanno sperato per mesi di andare in Gran Bretagna.

Gian Maria Tosatti e Alessandro Bulgini hanno raggiunto la città in automobile insieme e il primo ha raccontato al pubblico come appena arrivato si sia trovato davanti «non a un luogo di miseria e disperazione come veniva descritto dai media, ma a una sinfonia immensa che suonava a piena voce». La povertà era certamente diffusa ma, continua Tosatti, «non avevo davanti un campo profughi, ma una vera e propria città, con ristoranti, chiese negozi. Parliamo di 8.000 persone, una civiltà multilingue e armonica, generosa, vitale».

Tosatti ha iniziato a relazionarsi con gli abitanti di Calais dipingendo con i colori dell’arcobaleno alcuni sassi sparsi per le strade. Dopo una prima sorpresa reazione, la multilingue comunità di Calais ha preso il pennello in mano. Tra le varie sfumature del progetto, la più importante era quella di costruire un arcobaleno largo 50 metri e alto 20 che avrebbe dovuto attraversare l’intera città. «L’arcobaleno – ha spiegato Tosatti – come simbolo biblico, come esaltazione di un luogo in cui teoricamente non esistono concetti come Muro, o Divisione. Arcobaleno come ciò che si contrappone al grigiore dell’Europa contemporanea, simbolo della rigenerazione e dell’alleanza».
Sebbene il progetto non sia stato terminato a causa dello smantellamento del campo, quella di Gian Maria Tosatti rimane una fervida testimonianza di cosa sia accaduto tra le strade, le tende e le roulottes di Calais. La sua esperienza nasce nell’ottica di una narrazione diversa, mossa dalla volontà profonda di relazionarsi con la comunità di Calais, in una sorta di arte partecipata, attraverso azioni di ascolto e condivisione. L’esperienza è raccontata in un libro, New Men’s Land. Storia e destino della Jungle di Calais, edito da Derive Approdi.

L’incontro è proseguito con il racconto dell’esperienza di un emozionato (ed emozionante) Alessandro Bulgini, le cui opere sono esposte in questi giorni al Castello di Rivara. Si tratta di un artista con un approccio all’arte carnale e vitale: sceglie di abbandonare il circuito artistico commerciale e di dedicarsi a territori e realtà nascoste da Taranto, città da cui proviene, a Barriera di Milano, il quartiere torinese dove risiede.

Gli interrogativi che Bulgini si è posto dopo essere giunto a Calais erano fortemente contemporanei: come può l’arte essere d’aiuto al mondo che viviamo? Come può incontrare le emergenze? «Nel mio lavoro sono spinto da urgenze e sentimenti forti – ha detto – io vivo l’arte come strumento di comunicazione, di aiuto, di trasmissione. Voglio offrire dei doni alle persone che incontro, e mi adopero nell’azione».
A Calais Bulgini ha costruito aquiloni con gli abitanti della Jungle, promettendo loro che con quelli avrebbe tentato di spostare l’Europa più vicina all’Inghilterra, meta sognata dai migranti. Nelle foto che testimoniano la sua esperienza a Calais, Alessandro indossava una tuta rossa con la scritta Opera Viva, cosicché potesse essere riconoscibile e al termine dell’incontro ha salutato tutti  con felicità e cordialità: «La mia idea è quella di restituire una versione della diversità più ‘normale’ di come si possa pensare».

L’incontro di Biennale si collega alla mostra Esodi e conflitti, diritto alla speranza che il Cineporto ospita fino al 20 maggio. L’esposizione mette a confronto due linguaggi differenti – arte e foto-reportage – per riflettere sui risvolti e sulle implicazioni post-conflitto perduranti ormai da decenni, emergenze tristemente normalizzate del nostro “Secolo”. Quattro gli artisti esposti: Alessandro Bulgini, Gian Maria Tosatti, Fabio Bucciarelli e Diego Ibarra Sánchez.