di Marco Gritti (Futura news – Master in giornalismo “Giorgio Bocca”)

Neet, ovvero Not engaged in Education, Employment or Training. Sono ragazze e ragazzi, di fascia d’età compresa tra 15 e 29 anni, che non studiano né lavorano: in Italia, nel 2016, erano 2 milioni e 35 mila. Il 22,3% del totale: una fetta importante di popolazione, anche se in diminuzione rispetto al 2013. Calabria, Sicilia e Campania le regioni più colpite dal fenomeno Neet, con punte oltre il 35%, mentre capolista in questa triste classifica, al Nord, è proprio il Piemonte. Un altro dato allarmante riguarda la popolazione di giovani che non lavorano e non sono disponibili a farlo: sono 520 mila persone che rientrano nel dato Neet, «la maggior parte giovani mamme con figli piccoli», dice Pietro Garibaldi, docente di economia politica a Torino.

All’incontro hanno partecipato anche Giusi Marchetta, scrittrice e insegnante, secondo cui «il problema dei Neet nasce nella scuola: i ragazzi non sono motivati a prendere il diploma e a proseguire gli studi. Chiamiamolo “Gianluca Polito”: bocciato più volte, disaffiliato, distaccato dalla scuola, magari con una difficoltà di apprendimento. È un ragazzo malato che la scuola non sa guarire. Per capirlo e aiutarlo dobbiamo guardare il mondo attraverso i suoi occhi». Un passaggio tutt’altro che semplice, come spiega Stefano Zanotto, educatore dell’associazione Gruppo Abele di Torino, perché «i Neet sono ragazzi con bassi livelli di istruzione, magari con la sola licenza media in tasca. Spesso provengono da situazioni in cui la povertà economica si mischia a quella culturale, fatta di pochi strumenti, opportunità e aspirazioni».

E quindi cosa si può fare? Secondo Marchetta «bisogna inserire i Neet all’interno di una comunità: servono scuole aperte, risorse e progetti da perseguire con continuità. Il problema riguarda anche gli insegnanti, che devono cercare di indirizzare le energie dei ragazzi in qualcosa di costruttivo». Garibaldi suggerisce invece di istituire uno strumento di verifica, a livello universitario, per monitorare gli studenti che non fanno esami. Il problema, infatti, non si esaurisce nella scuola dell’obbligo: a rischio dispersione scolastica, anche se in misura minore, ci sono anche i ragazzi dai vent’anni in su.