di Marco Gritti (Futura news – Master in giornalismo Giorgio Bocca)

«L’Italia è un caso atipico in Europa. Avere o no la laurea sposta di poco la media dei redditi. A quattro anni dal titolo, i ragazzi che escono dall’università guadagnano circa 1400 euro al mese. Seicento in meno dei laureati del Nord Europa. Ancora più amaro il confronto con i paesi dell’Europa continentale orientale, dove gli stipendi mensili, nello stesso periodo, si attestano attorno ai 2400 euro». Valentino Larcinese, docente di Public Policy alla London School of Economics, parla a Biennale Democrazia nel panel – organizzato in collaborazione con CEST e a cura di Neos – in cui si discute di skill mismatch, ovvero il disallineamento tra le competenze dei lavoratori e le necessità dei datori. Un fenomeno che, in Italia, riguarda un dipendente su quattro, aggiunge Michele Pellizzari, docente all’Università di Ginevra. Il 14% ha competenze superiori a quelle richieste, il 9% occupa una posizione per la quale non è formato. La situazione di overskilling, in particolare, riguarda i settori di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica.

Durante l’incontro, a cui hanno partecipato anche le classi dei licei Gobetti e Galileo Ferraris e dell’istituto tecnico Peano, il dottor Larcinese ha presentato i dati sulla mobilità intergenerazionale, cioè la possibilità che i figli abbiano opportunità di formazione, di lavoro e di reddito diverse dai propri genitori. L’Italia, in questa classifica, è quinta: peggio di noi, in Europa, si posiziona solo il Regno Unito. Poca mobilità sociale, dunque. E, dato curioso, anche negli Stati Uniti, terra di opportunità e di self made men nell’immaginario collettivo, la ricchezza passa di generazione in generazione.

Non tutti i dati sono però negativi. A proposito delle performance scolastiche, infatti, l’Italia rivela sì una certa dipendenza dagli indicatori sociali, ma in termini simili a quello che succede in Giappone e Scandinavia, paesi tradizionalmente ai vertici delle classifiche di merito. Il problema, dunque – concludono i relatori – non sarebbe tanto nella scuola dell’obbligo, quanto nell’università.